Il termine ingiustizia ermeneutica è stato introdotto dalla filosofa britannica #Miranda_Fricker nel saggio Epistemic Injustice (2007). Fa parte di una riflessione più ampia sulle ingiustizie epistemiche, ovvero i danni che le persone subiscono non tanto per ciò che vivono, ma per il modo in cui le loro esperienze non vengono riconosciute come forme valide di conoscenza.
Si parla di ingiustizia ermeneutica quando una persona o una comunità non dispone delle risorse concettuali adeguate per esprimere e rendere comprensibile la propria esperienza, perché quelle risorse sono state sviluppate da gruppi dominanti che non condividono la stessa prospettiva.
Digital e AI divide.
In pratica anche se l’esperienza esiste, mancano gli strumenti linguistici e concettuali per renderla riconosciuta socialmente e politicamente.
Con l’avvento delle tecnologie digitali, il concetto di ingiustizia ermeneutica si applica anche al digital divide. Il divario digitale non riguarda solo l’accesso a dispositivi o connessioni, ma anche la capacità di comprendere e comunicare le proprie esperienze di esclusione.
L’ingiustizia ermeneutica riguarda anche l’AI.
Chi controlla il linguaggio dell’AI?
La maggior parte della produzione accademica e divulgativa sull’AI è concentrata in contesti altamente specializzati e tecnologicamente avanzati. Questo significa che molte esperienze culturali e locali restano fuori dal discorso dominante, creando uno squilibrio linguistico e concettuale.
Esperienze invisibili
• Bias nei dataset: comunità non rappresentate non hanno nemmeno i concetti per esprimere la loro esclusione, finché non vengono introdotti da altri (es. data poverty).
• Governance linguistica: termini come fairness, alignment, explainability sono prodotti dagli esperti. Chi vive la discriminazione di un algoritmo (ad esempio, essere rifiutato da un mutuo per ragioni non trasparenti) non ha strumenti per tradurre quell’esperienza in categorie riconosciute.
Colonialismo epistemico
L’AI literacy rischia di diventare un caso di colonialismo epistemico, in cui pochi attori globali (grandi aziende tech, centri di ricerca occidentali) impongono il linguaggio e i concetti, marginalizzando altri punti di vista. Questo genera una frattura: i termini esistono, ma non rappresentano tutte le esperienze reali.
Esempi storici di ingiustizia ermeneutica.
- Disturbo da stress post-traumatico (PTSD): prima che fosse riconosciuto negli anni ’70, i reduci di guerra venivano accusati di “debolezza” o “isteria” invece di avere le parole per descrivere il trauma.
- Autismo: per decenni, le persone autistiche erano definite attraverso termini clinici svalutanti (psicosi infantile, ritardo mentale). Solo con la nascita del movimento per i diritti autistici è emerso un linguaggio più accurato, che consente di raccontare l’esperienza dall’interno.
- Prima della diffusione del concetto di barriere architettoniche, le difficoltà di chi usava una sedia a rotelle venivano viste come un problema “individuale” e non come responsabilità della società.
- Bullismo scolastico: prima degli anni ’90, episodi oggi riconosciuti come bullismo erano spesso minimizzati come “ragazzate”.
- Dipendenze: chi soffriva di alcolismo o tossicodipendenza era considerato semplicemente “vizioso” o “debole di carattere”, senza un linguaggio che lo riconoscesse come condizione complessa.
- Quando un algoritmo esclude una persona da un colloquio o da un mutuo, spesso manca ancora il linguaggio condiviso per spiegare l’esperienza. Solo con concetti tecnici come algorithmic bias si inizia a darle visibilità.
- Studenti senza connessione durante la DAD venivano definiti “pigri” o “assenti”, perché mancava un linguaggio politico e sociale che riconoscesse il digital divide come forma di esclusione.
- Chi non riesce ad accedere a SPID o a un servizio digitale è percepito come “incapace” invece di riconoscere l’assenza di accessibilità digitale come barriera strutturale.
- Molti fenomeni di cyberbullismo, revenge porn o hate speech online restano sottovalutati perché manca un linguaggio condiviso che renda visibile la gravità dell’esperienza per chi la subisce.